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Peter Bonetti, al centro di un intrigo internazionale

Nel 1970, l'Inghilterra non riuscì a difendere il titolo mondiale e la colpa fu data a un portiere e ai servizi segreti

Gordon Banks seguiva l’azione dalla sua porta. Carlos Alberto era uscito dall’area e sembrava sul punto di iniziare una delle sue sortite sull’out destro. Non c’era da preoccuparsi soverchiamente, era ancora distante più di 70 metri. Invece il terzino brasiliano calciò il pallone con un potente esterno destro, che si diresse millimetricamente verso il già lanciato Jairzinho – fra i pali, Banks non poté fare a meno di pensare che fra i suoi compagni non c’era nessuno in grado di eseguire con la stessa padronanza il gesto tecnico con cui il capitano carioca aveva creato un pericolo concreto in una frazione di secondo.

Mentre la mente del portiere inglese era attraversata da quel vago pensiero, in quel battito di ciglia, Jairzinho aveva già superato l’arrancante Terry Cooper e si apprestava a centrare il pallone. Ora Banks si ritrovava fuori posizione, troppo vicino al suo palo sinistro, e sperò che il cross si rivelasse innocuo. Forse lo sarebbe stato, innocuo, se a raccoglierlo non ci fosse stato Pelé, appostato poco a sinistra del dischetto del rigore, già in volo, quasi sospeso in aria: la palla e la testa di O Rey si incontrarono oltre l’elevazione del difensore Tommy Wright e convennero per una traiettoria secca e veloce, che precipitò verso l’erba e poi, come ovvio, in rete.

Anzi, no! Un’ombra balzò in orizzontale verso il montante che attendeva l’incornata del campione e, incredibilmente, smanacciò il pallone sopra la traversa, ricacciando in gola a Pelé l’urlo del gol e strappando a Bobby Moore una reazione di ammirato stupore.

Il corpo che proiettò sul campo quell’ombra fulminea era ovviamente di Banks, che aveva appena dato dimostrazione di una straordinaria reattività neuro-muscolare e mandato in archivio la parata che molti considerano la più spettacolare e difficile di tutti i tempi.

Banks aveva difeso la porta dei “bianchi” nei Mondiali del ’66 e aveva ricevuto la Coppa Rimet dalle regali mani di Elisabetta II di Windsor. Era campione del mondo in carica e all’apice della carriera, ancora integro fisicamente e con maggiore esperienza e confidenza nei propri mezzi. Anche per questo, gli inglesi erano convinti di poter difendere con successo il titolo conquistato a Wembley ai Mondiali messicani del 1970. Dopo la prodezza sul colpo di testa di Pelé, nel secondo tempo, Banks aveva dovuto arrendersi a un fendente imparabile di Jairzinho, ma la sconfitta non aveva scalfito la baldanza albionica. Tutti erano convinti di poter ribaltare il risultato quando avessero incontrato il Brasile in finale, evidentemente considerando l’imminente quarto di finale contro la Germania Ovest niente più che una semplice formalità.

Allora, Inghilterra e Germania avevano vinto un Mondiale a testa, ma quello inglese era venuto in esito allo scontro diretto di Wembley. Inoltre, la tradizione era nettamente favorevole ai “maestri” d’Oltremanica, che solo nel 1968 avevano patito la prima sconfitta in amichevole ad Hannover, a fronte di ben 7 vittorie.

L’allenatore Alf Ramsey era tranquillo al punto che concesse alla squadra un giorno di riposo con mogli e fidanzate al Country Club di Guadalajara. Come tutte le altre comitive internazionali, gli inglesi si erano portati dalla madrepatria la maggior parte del cibo e delle bevande, per minimizzare la minaccia delle infezioni che sovente colpiscono gli europei che soggiornano brevemente nei paesi tropicali. La birra, tuttavia, non era considerata una bibita a rischio, visto che l’alcool uccide i batteri in genere responsabili dell’insalubrità dell’acqua. E, tradizionalmente, gli inglesi bevono birra quando si riposano e conversano in compagnia. Così fecero i giocatori, spensieratamente, e così anche Banks, che in capo a un’ora si contorceva in bagno con spasmi allo stomaco, attacchi di diarrea e vomito: la “maledizione di Montezuma” aveva mietuto un’altra vittima.

Il portiere passò una notte agitata, ma l’indomani parve libero dai sintomi e Ramsey lo sottopose a un test fisico per sincerarsi delle sue condizioni. Banks lo superò e con i compagni si riunì nella stanza del tecnico per preparare la gara. Durante la riunione fu di nuovo assalito dal dolore e presto fu un bagno di sudore. Il medico Neil Phillips lo visitò ancora e dovette decretare il suo forfait. A poco più di un paio d’ore dall’inizio del quarto di finale, Peter Bonetti, nato a Londra da genitori ticinesi, portiere del Chelsea da 10 anni, conosciuto come “il Gatto” per i riflessi fulminanti e le movenze felpate, fresco vincitore della Coppa d’Inghilterra dopo un’eroica finale contro il Leeds United, seppe che sarebbe sceso in campo per la settima volta con la maglia dei Tre Leoni. Nessuna meraviglia, pertanto, che fosse un fascio di nervi in tensione nel tragitto dall’hotel allo stadio di Leon.

Come andò, è già stato raccontato, finì 3-2 per la Germania Ovest. Qui resta da dire che, con la situazione in totale controllo, una conclusione quasi inoffensiva di Beckenbauer trovò impreparato Bonetti, che, sino a quel momento inoperoso, si lasciò passare la palla sotto il corpo in un goffo tentativo di parata. L’inatteso 1-2, mentre l’Inghilterra gestiva agevolmente il doppio vantaggio, sortì l’effetto di rinvigorire i tedeschi e annebbiare la lucidità inglese. Ramsey inserì Colin Bell per risparmiare l’anziano leader Bobby Charlton, che peraltro stava egregiamente sopportando il caldo e l’altitudine. Secondo alcuni fu la mossa (o l’errore) che rovesciò l’inerzia della partita. Preoccupato della pericolosità offensiva di Charlton, Beckenbauer era rimasto fino a quel momento all’ombra del fuoriclasse avversario, la cui sostituzione lo liberò dai compiti di copertura e aumentò la spinta propulsiva della Germania. Il pari arrivò con l’eccentrica inzuccata di Seeler, sulla quale Bonetti pagò un piazzamento errato, e nei supplementari fu Müller a fissare il risultato.

La rete decisiva di Gerd Müller

La stampa cercò un capro espiatorio e lo trovò in Bonetti. Le critiche furono così aspre e insistite che la madre del portiere fu spinta a scrivere ai giornali per invocare il silenzio. Uscirono inoltre teorie cospirative, a tal punto era profondo e intollerabile lo shock sofferto. I giornali misero insieme episodi vari succedutisi durante la spedizione messicana e vi trovarono le prove del complotto: la falsa accusa mossa contro Moore di aver rubato un braccialetto in una gioielleria di Bogota; l’inerzia delle forze dell’ordine di fronte alle decine di rumorosissimi tifosi messicani sotto le finestre delle camere dell’albergo che ospitava la squadra la notte precedente la partita contro il Brasile; il diniego opposto dalle autorità aeroportuali di Leon al trasferimento in aereo da Guadalajara per la presunta inadeguatezza della pista per l’atterraggio del jet della squadra inglese, così costretta a uno scomodissimo viaggio in pullman.

Addirittura, Bob Oxby, un giornalista del “Daily Telegraph”, riferì che suo cugino Stuart Symington, senatore del Congresso Americano, gli aveva rivelato che Banks era stato avvelenato nientemeno che dalla CIA, che aveva inteso rimuovere dal torneo l’unica nazionale reputata in grado di impedire la vittoria finale della Seleção, massimamente auspicata da Washington per silenziare il malcontento popolare nei confronti del governo dittatoriale di Brasilia.

Nessuno, o quasi, fu sfiorato dal sospetto che l’Inghilterra avesse ormai alle spalle la propria gloria calcistica. I tempi d’oro del dominio britannico, esistito solo nell’auto-percezione nazionale se si guarda ai dati oggettivi dei miseri risultati conseguiti nelle competizioni internazionali, stavano per lasciare il passo a un decennio di conclamati insuccessi, il cui primo testimone fu proprio il tecnico Alf Ramsey, che fallì la qualificazione ai Mondiali del 1974, così come capitò al suo successore Ron Greenwood, cui non riuscì di partecipare al Mundial argentino.

Bonetti, dal canto suo, ricevette negli spogliatoi le parole di conforto dei compagni: «Non ti abbattere, figliolo, tutti commettono errori. Non lasciare che questa partita comprometta il resto della tua carriera», lo consolò Ramsey, che tuttavia non lo convocò più nazionale.

Prima di finire a fare il postino in Scozia, Bonetti giocò ancora a lungo nel Chelsea, vinse la Coppa delle Coppe nel 1971 e la Coppa di Lega l’anno dopo, ma in qualunque stadio andasse i supporter avversari gli ricordavano il disastro di Leon. Aveva imparato sulla sua pelle che gli errori dei portieri sono di una specie tutta particolare: non conoscono redenzione.

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