Nel 1945, avendo battuto a sorpresa Winston Churchill alla prime elezioni dopo la fine della II Guerra Mondiale, il notoriamente laconico Clement Attlee si recò a Buckingham Palace per ricevere l’incarico di Primo Ministro della Gran Bretagna dalle mani di Re Giorgio VI, un altro taciturno di fama mondiale, i cui problemi di balbuzie sono stati rivisitati qualche anno fa nel fortunato film “Il discorso del re”. Dopo lunghi e imbarazzanti momenti di silenzio, Attlee infine riuscì a dire sommessamente: «Ho vinto le elezioni». «Lo so – ribatté Sua Maestà -, l’ho sentito al notiziario delle 18».
Le poche parole che i due uomini si scambiarono in quel momento solenne sono ancora oggi citate come ineguagliato esempio di concisione e supremo manifesto del famoso understatement inglese. Due doti che Gaetano Scirea possedeva in gran quantità, al punto che volendo cercare sue dichiarazioni o interviste, a quasi 25 anni dalla morte, avvenuta il 3 settembre 1989 in Polonia, per un incidente d’auto, ci si deve accontentare di brevissime e sintetiche frasi. In perfetta sintonia con il temperamento dell’atleta la cui improvvisa scomparsa dovette annunciare alla “Domenica sportiva”, Sandro Ciotti ebbe a dire: «È inutile spendere parole su un uomo che si è illustrato da sé per tanti anni su tutti i campi del mondo, che era un campione non soltanto di sport ma soprattutto di civiltà». È probabile che Scirea non avrebbe vinto la sua indole schiva neanche per commentare l’ennesimo sfregio al vivere civile compiuto dai tifosi della Juventus, che assiepano e violentano domenicalmente la curva a lui intitolata.
Come sanno i lettori delle cronache sportive, il 9 marzo scorso, in occasione di Juventus-Fiorentina, le curve si sono scambiate varie cortesie, cori anti-semiti da una parte e insulti alla memoria della tragedia dell’Heysel dall’altra. Mariella Scirea, vedova di Gaetano, inorridita come tante persone dal razzismo e dall’inciviltà che regnano impuniti da decenni negli stadi italiani, ha espresso la sua indignazione e chiamato le autorità all’adozione di misure drastiche e finalmente risolutive, le stesse che da anni vengono proposte all’indomani di episodi particolarmente eclatanti e che rimangono poi inapplicate per la pusillanimità degli organi di governo del calcio e per il doppiogiochismo delle società calcistiche, pronte a schierarsi verbalmente contro i loro facinorosi sostenitori e però a foraggiarli nascostamente con biglietti e trasferte omaggio. Ha aggiunto, la vedova Scirea, la minaccia di togliere alla curva Sud dello Juventus Stadium la simbolica intitolazione al nome del marito. I Drughi, questo il nome degli ultras bianconeri, non sono restati in silenzio, a meditare sui loro reati, ma addirittura le hanno oscenamente replicato, accusandola di lesa maestà e di approfittare del cognome del defunto coniuge per vantaggi personali, invitando lei, semmai, a rinunciarvi, tornando a portare il cognome da nubile.
Gli appassionati di buona volontà e le famiglie che vorrebbero festosamente tornare a vedere le partite allo stadio, invece che rinserrate in salotto di fronte alla pay-tv, aspettano pronunciamenti e passi concreti: dal Governo e dal Viminale, dalla Lega e dalla Federcalcio e magari dal presidente juventino, Andrea Agnelli, il quale, pur non perdendo occasione per rinfocolare la polemica sugli scudetti revocati alla Juventus per la vicenda di “Calciopoli”, così lisciando il pelo alla falange più esagitata della tifoseria bianconera, si atteggia a statista del calcio europeo in paludate interviste alle televisioni anglosassoni in cui si avventura in ardite giustificazioni dell’inqualificabile comportamento delle curve, sdottorando sulla differenza fra razzismo e discriminazione territoriale e derubricando di fatto la delinquenza che ammorba le arene nazionali a innocuo folklore campanilistico.
Da questo modesto punto di osservazione, mi pare di poter dire che aspetteremo invano. Nessuno ha notato che l’ultima prodezza dei delinquenti da stadio è caduta nel 28esimo anniversario della sacrosanta ribellione di Astutillo Malgioglio alla becera curva laziale. Non credo siano in molti a ricordare la sua storia e allora vale la pena di raccontarla, visto che siamo in tema.
Nato nel 1958, Malgioglio ha militato in serie A e in serie B fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90, facendo più che altro la riserva a colleghi più celebrati. Portiere di discreta levatura nella cadetteria, fin da giovanissimo si era in verità segnalato più per l’encomiabile sensibilità sociale che per le virtù tecniche. Nel 1977, dopo una visita natalizia a un ricovero di bambini disabili, aveva fondato con la moglie Elena l’associazione “Era77”, impegnandosi nell’assistenza ai piccoli affetti da distrofia muscolare. A quell’attività, Astutillo aveva dedicato tutto se stesso, i suoi guadagni e i periodi di vacanza dallo sport. Per quello forse, durante la sua permanenza al Brescia, erano sorti dissidi insanabili con l’allenatore Marino Perani, che lo aveva tolto di squadra dopo cinque campionati da titolare e una promozione nella massima serie. Dopo un anno alla Pistoiese, Malgioglio ottenne la fiducia di Nils Liedholm, che lo volle alla Roma come riserva di Roberto Tancredi. Nella capitale, osservò i compagni arrivare a un passo dalla Coppa dei Campioni nel 1984 e disputò una gara nell’edizione di quell’anno della Coppa Italia, vinta dai giallorossi. Poi, con l’obiettivo di tornare titolare, accettò di scendere in serie B, traversando il Tevere e approdando ai cugini della Lazio.
In quell’anno disgraziato, con risultati al di sotto delle aspettative, Astutillo diventa però il bersaglio della contestazione degli ultras, che rancorosamente gli rinfacciano quello che giudicano un eccessivo impegno nella sua associazione assistenziale.
Segregato nella propria casa per sfuggire alle continue ingiurie e minacce, un giorno, al centro sportivo di Tor di Quinto, trova l’auto sfasciata a sprangate da vili mani anonime. La società resta indifferente, i compagni volgono lo sguardo e Malgioglio resta solo. I violenti non risparmiano la moglie, cui indirizzano indecenti offese, e nemmeno la figlia, vittimizzata a scuola da ingenui compagni opportunamente catechizzati. Infine, l’astio esplode clamorosamente contro il portiere che difende la dignità degli umili.
Il 9 marzo 1986, si gioca Lazio-Vicenza. La curva Nord dell’Olimpico ribolle di odio, vi si inalberano striscioni vergognosi che nessuno rimuove: «Tornatene dai tuoi mostri» e «Sporco romanista, sei il primo della lista». Malgioglio non può concentrarsi, subisce un paio di gol evitabili, la Lazio perde 3-4, le urla diventano assordanti e lui mette un punto alla sopportazione supina. A grandi passi va verso gli spalti, si toglie la maglia e la getta a terra, ci sputa sopra o, almeno, dà mostra di farlo. Scoppia il finimondo.
La società esita, stenta a difendere il suo uomo, anzi decide di cavalcare l'indignazione pelosa. Accusa Astutillo della suprema ingiuria, non ammette redenzione per chi si è macchiato dell’insulto alle sacre insegne, seppur in risposta a una campagna diffamatoria intollerabile. Malgioglio sa in che mondo vive, rescinde il contratto e annuncia il ritiro: «Mi tolsi la maglia con la consapevolezza di dire basta col calcio – ricorda oggi l’ex portiere - I dirigenti si erano scatenati e recitavano da ultras. Proposero la mia radiazione. Fu come essere aggredito un'altra volta».
Ma la storia ha un’appendice, edificante stavolta, cui tuttavia segue un epilogo scoraggiante.
Dopo il clamoroso ritiro, un giorno squilla il telefono. Dall'altra parte del filo, una voce amica, la prima, da tanto tempo. È Giovanni Trapattoni, appena arrivato alla guida dell’Inter, che gli propone il ruolo di rincalzo all’astro nascente Walter Zenga. Astutillo quasi non ci crede, corre a Milano e mette la sua firma su un accordo in bianco. È la rinascita, cinque anni bellissimi e lo scudetto dei record nel 1989, anche se solo con 12 partite da titolare. Coinvolge Jurgen Klinsmann nelle sue iniziative benefiche, il promettente Alessandro Bianchi lo elegge a propria guida morale e ottiene il pieno appoggio della società.
Infine, i tornanti del destino, gli servono un finale imprevisto.
4 marzo 1990. Il campionato prevede Lazio-Inter. Zenga è squalificato, tocca al numero 12. Malgioglio sa cosa lo aspetta e mette sull’avviso il presidente Ernesto Pellegrini, che giustamente non recede: «Astutillo, qui dobbiamo dare un segnale chiaro – lo convince il patron -, porterai un mazzo di fiori sotto la curva, farete pace e tutto filerà per il meglio».
Per i lavori in vista dei Mondiali del 1990, l’Olimpico è chiuso e la partita si gioca al Flaminio. Lo stadio è diverso, ma gli ultras sono i soliti e non si smentiscono. Malgioglio cammina verso la curva con i fiori in mano, li reca come segno di pacificazione. I fischi lo sommergono, arrivano gli insulti, i più tremendi, quelli che gli uomini lanciano quando sono coperti dall’anonimato. Poi, piove di tutto: «Passai momenti terribili – rievoca Astutillo -, avanzavo con i fiori, da solo. Al centro della scena. Prima le contumelie, poi gli oggetti». Radioline, pile, bottiglie e ortaggi colpiscono quell’uomo coraggioso, che rimane in piedi, di fronte alla folla delirante. Quando torna indietro, è una maschera di sangue. Tanto per cambiare, nessuno sente il bisogno di un gesto di solidarietà. L’arbitro non sospende la gara, la Lazio resta muta, perde l’ultima occasione per schierarsi dalla parte giusta.
È l’ultimo episodio che si ricorda della traiettoria sportiva di un uomo buono. Oggi, l’associazione “Era77” è chiusa da anni. A carriera terminata, sono mancati i fondi per continuare. Per un periodo, Malgioglio ha continuato a prestare assistenza a domicilio. Poi, colpito nella salute, non ha potuto continuare nello scopo della sua vita, ha regalato le attrezzature e i macchinari, uscendo definitivamente dalle cronache. Se ancora conserva sufficiente passione per il calcio è probabile che abbia scosso la testa nell’apprendere della vicenda capitata allo Juventus Stadium, alzando lo sguardo al cielo e ottenendo la triste conferma che in tre decenni poco è cambiato, e forse solo in peggio.