Nedo Nencioni e i lager nazisti
“E Nedo Nencioni?”. La domanda arriva in un mattina di grande caldo, davanti al negozio di generi alimentari di via Giordano, in cui lui è solito andare a comprare il pane, la mattina, puntuale, per poi raggiungere casa, che è a un tiro di schioppo, in via San Teofilo (si è trasferito, a Fucecchio, da qualche anno). Si viene a sapere così che non sta bene, che è in rianimazione al San Giuseppe di Empoli. Ha avuto un arresto cardiaco. Le speranze che possa farcela sono legate a un filo fine fine. Le primavere sono ottantacinque. Non poche. La notizia spiazza. Uno, certe figure, è abituato a vederle sempre, a giudicarle indispensabili, fino a ritenerle immortali. Testimoni di storie che devono essere ricordate. Nedo Nencioni è una di esse.
Ma la realtà è un’altra. Nedo muore. E’ il 6 settembre 2012. E bisognerà abituarsi a farne a meno. Bisognerà abituarsi a non ascoltare la sua testimonianza di unico sopravvissuto, nell’Empolese Valdelsa, ai lager nazisti, in Austria. Scuola dopo scuola, in tutta la Toscana. A non vederlo, fazzoletto bianco e celeste al collo, guidare i viaggi per studenti, organizzati dai Comuni della zona. Per non dimenticare.
Nasce a Livorno il 23 dicembre 1927, da dove si trasferisce nel momento in cui la città viene bombardata, dopo l’8 settembre 1943, e diventa pericolosa. Con la famiglia, raggiunge Empoli. Il padre va a lavorare alla vetreria Taddei. Poco dopo anche lui viene assunto. Ha 17 anni, nel marzo 1944. Partecipa allo sciopero generale del 4, che blocca le aziende maggiori. E’ stato indetto per rivendicare pace, libertà e democrazia.
La manifestazione suscita la reazione, soprattutto, dei repubblichini. Ne approfittano per attuare vendette e dare libero sfogo all’odio represso. Sicché non vanno tanto per il sottile. Nell’Empolese Valdelsa, prendono un centinaio di persone, nel cuore della notte. E altri, nel resto della Toscana. Sono circa duemila. Tutti a Firenze. Prima in una scuola. I tedeschi non sembrano convinti di deportarli. Ma cedono alle insistenze dei repubblichini, che vedono in loro un nemico pericoloso, da togliere di mezzo.
Allora li ammassano alla stazione Leopolda, poi li conducono al famoso e famigerato Binario 6 della stazione di Santa Maria Novella. E’ l’8 marzo quando il treno lascia Firenze. Tocca Fossoli e Verona. Dopo tre giorni, tre giorni d’inferno, è a Mauthausen, in Austria. C’è chi rimane in quel lager e chi, invece, viene spedito nei sottocampi di Ebensee, Gusen e il Castello di Harteim.
A Nedo e suo padre, tocca Ebensee. L’uomo muore di stenti. Nedo sopravvive, aiutato dalla giovane età.
Ho partecipato a un viaggio in quei lager.
Ecco quel che sono riuscito a fermare sulla carta e che ho incluso nella raccolta “Taccuino di un errante”.
Il Castello di Hartheim
di Riccardo Cardellicchio
Le parole di sempre, consumate, non hanno cittadinanza.
Qui.
La memoria non stempera,
non ammorbidisce, non consola.
Il muro dell’ipocrisia si fa polvere, svanisce.
Ogni pezzo di terra, ogni mattone
reclamano la verità, sprigionano dolore.
La pietra, che nel tempo tramanda,
non sarà mai sufficientemente robusta
per mantenere – intero - il ricordo.
Sono occhi e mani e cuori e anime.
Soggiogati. Profanati. Vilipesi.
Che t’entrano dentro, grimaldelli impietosi.
Non vogliono incertezze, titubanze.
Occhi e cuori e anime raccontano
storie che s’accavallano a storie.
Storie di uomini e di donne,
di bambini e di vecchi indifesi.
Ultimi.
Annichiliti dall’eutanasia dell’amore.
Il Castello di Hartheim, Mauthausen, Ebensee, Gusen
scandiscono calvari,
partoriti da un’ideologia di morte.
Le camere a gas erano mascherate
da docce, scarichi d’acqua.
L’angolo per lo sparo alla nuca
era nella stanza del forno crematorio.
La cava di pietra aveva pareti ripide,
strapiombi senza appigli,
e le SS spingevano uomini e donne
e, ridendo, dicevano che quelle
erano le pareti del paracadutista.
Perché mio Dio?
Era necessario tutto questo, mio Dio?
Il dubbio squassa, inquieta,
rende le notti impossibili.
Di fronte a gesti atroci,
di fronte a mani lorde di sangue
guidate dall’odio
non puoi essere indifferente.
Provi a dire, a dirti
“Non deve accadere più”.
Ma non basta. Non basta.
Non bastano le parole.
L’uomo, qui, ha toccato il fondo.
L’odio ha generato odio e morte.
E la vita non è stata più vita.
Noi calpestiamo suolo contaminato
dalla follia e dall’angoscia.
La follia del dominatore,
l’angoscia di chi era ridotto
a cosa, oggetto da usare e gettare.
Stucke. Pezzo.
Sembra di vederli.
Vorresti sapere di più, conoscere la loro vita.
Quella di prima, fatta di ombre ma anche di luce.
Vorresti sentire voci e risate e canti
nelle loro città, nelle loro case,
prima che fossero zittiti
da bisturi, arieti spietati,
e dallo Zyklon B, il gas, le docce aperte
- inganno demoniaco –
da cuori di fango.
Olocausto,
sacrificio levitico, trasformato in massacro, sterminio,
dalla follia d’un uomo, mostro, esaltazione
dell’inferno abitato da belve
convinte d’essere superiori,
razza pura,
e di poter dominare il mondo.
Il silenzio che ascolti, che ti riempie,
che tocca ambienti antichi, li avvolge, oltre il tempo,
è potente come un urlo.
Non puoi ignorarlo,
tu che, pellegrino, sei venuto
fin qui a chiedere perdono
in nome dell’uomo lupo dell’uomo.
Viacrucis.