La prima avanguardia sovietica a giungere ad Auschwitz, il 27 gennaio 1945, era composta da quattro soldati a cavallo. Si guardarono intorno muti e increduli, pietrificati come il suolo ghiacciato da una specie di ritegno che impediva loro di sostenere lo sguardo dei superstiti del lager, che si aggiravano come ombre fra i cadaveri irrigiditi, le baracche diroccate, le masserizie scomposte. Racconta Primo Levi (“La Tregua”, Einaudi, 1963) che l’attimo supremo della liberazione fu vissuto dai pochi e stenti vivi con un senso opprimibile di pudore, per le brutture che l’indicibile tragedia della Shoah aveva lasciato su di loro.
Se, come dice ancora Levi, la ferita insanabile dell’Olocausto rimane come inesauribile fonte di male, che si propaga per mille vie, come ansia di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia, vale forse la pena di raccontare la storia di Abraham Klein, la cui traiettoria è segnata dai lasciti avvelenati descritti dallo scrittore torinese, benché fortunatamente priva dei risvolti tragici di solito associati alle conseguenze dello sterminio degli ebrei. Klein è stato uno dei migliori arbitri internazionali degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso e in tale veste ha diretto alcune delle partite più memorabili della nazionale di calcio, fra cui quella contro il Brasile ai Mondiali del 1982.
Klein nacque nel 1934 a Timisoara, che allora apparteneva all’Ungheria, e visse i primi anni di vita nel mezzo delle sofferenze dovute all’antisemitismo diffuso in Europa dalla Germania nazista. Il padre riuscì a scappare prima dell’inizio della guerra, la madre restò ad accudire i figli e sopravvisse fra incredibili traversie durante gli anni del conflitto, mentre molti membri della famiglia Klein furono deportati ad Auschwitz, senza fare più ritorno. Con l’arrivo della pace, il sollievo per essere sopravvissuti lasciò quasi subito il posto allo strazio dell’indigenza e della discriminazione. Insieme ad altri 500 bambini, il piccolo Abraham fu messo su un treno con destinazione Apeldoorn, in Olanda, verso una specie di collegio dove ai giovani ebrei venivano impartite lezioni di addestramento professionale. Vi rimase per 12 mesi, lontano dai genitori ma circondato dall’affetto dei filantropi che gestivano il centro e per la prima volta libero dalle grinfie della fame e della povertà: «Alla fine della guerra, con la disperazione che provavamo, l’Olanda ci fece sentire a casa e ci procurò cibo, un’educazione e il tempo per lo svago e la ricreazione: queste sono cose che non si dimenticano».
Come il padre, che era stato un discreto giocatore nell’MTK di Budapest, Abraham si cimentò nel calcio, ma senza grande successo. Durante una pausa del servizio militare, ormai in Israele, ebbe la necessità di un paio di pantaloni e si recò da un sarto di nome Jonas, che tuttavia stava uscendo dal laboratorio per andare ad arbitrare una partita di calcio. Abraham lo seguì e durante la gara fu costretto a sostituirlo a causa di un infortunio a una caviglia: in principio riluttante, Abraham mostrò un’innata attitudine al ruolo e soddisfatto dell’esperienza acquisì presto la licenza per arbitrare.
In breve scalò le gerarchie, fino a diventare il più stimato direttore di gara del campionato nazionale. Come tale, nel 1969, fu designato per arbitrare il primo incontro fra una squadra israeliana e una della Germania Occidentale, che vide di fronte l’Hapoel Nahariya e una selezione di dilettanti della Baviera. Intanto, la sua fama aveva varcato i confini di Isreale e nel 1965 fu chiamato a dirigere il primo confronto internazionale, Italia-Polonia valida per le qualificazioni ai Mondiali del 1966. Klein era abituato a stadi di ridotte dimensioni, ma ora lo attendevano 80.000 tifosi italiani nello Stadio Olimpico di Roma. Una settimana prima, pagandosi la trasferta di tasca propria, volò a Roma per rendersi conto di cosa lo aspettava e assistette alla gara di campionato fra Roma e Napoli; un amico polacco gli procurò gli articoli della Gazzetta dello Sport sulla nazionale e il giorno della gara fu pronto. L’Italia vinse 6-1 e ben tre gol vennero su applicazione della regola del vantaggio, segno evidente della confidenza e dell’autorità con cui Klein aveva diretto le operazioni.
Con sole altre quattro direzioni internazionali, fu inviato ai Mondiali messicani del 1970 e gli fu affidato il match fra il Brasile e l’Inghilterra, le squadre che avevano vinto le ultime tre edizioni della rassegna iridata, in pratica una finale anticipata: sui giornali inglesi scrissero che era come mandare un boy-scout in Vietnam. Ricorda Klein: «Ero nervosissimo e mi tremavano le mani, così le tenni in tasca fino all’ultimo, poi estrassi la destra e strinsi con forza quelle di Bobby Moore e Carlos Alberto». Tutto andò per il meglio, Klein arbitrò con la sua già invidiata autorevolezza naturale, tanto più sorprendente in un uomo alto meno di 1,70, che generalmente era sovrastato dai giocatori che dirigeva: negò un rigore a Pelé che aveva esagerato una carica di Alan Mullery e anche gli esigenti inglesi dovettero riconoscere che l’arbitraggio dell’oscuro israeliano era stato impeccabile.
Dopo l’assalto dei terroristi palestinesi di “Settembre nero” alla squadra di Israele nel villaggio olimpico di Monaco, nel 1972, che costò la vita a 11 atleti israeliani, per ragioni di sicurezza a Klein fu impedita la partecipazione ai Mondiali tedeschi del 1974. Tornò alla ribalta nel novembre 1976, quando la FIFA gli assegnò lo scontro fra Italia e Inghilterra per le qualificazioni al Mundial argentino. Le due squadre si erano appena incontrate nel Torneo del Bicentenario, negli Stati Uniti, e ne era uscita una gara aspra e ruvida. Con una posta in gioco di ben altro valore, Klein si ritrovava con “il compito meno invidiato del mondo”, come scrisse il Daily Mirror, ma lo svolse al meglio: gli Azzurri vinsero per 2-0 e di fatto staccarono il biglietto per il Mondiale del ’78, mentre Ken Aston, l’inglese che era presidente della Commissione arbitrale della FIFA, inviò un telegramma di congratulazioni a Klein in cui cominciava con la parola italiana “Bravo!”.
Ai Campionati del mondo del 1978, Klein era l’arbitro migliore sulla piazza. L’Argentina, come padrona di casa, era stata smaccatamente favorita dalle giacchette nere e ora, se voleva continuare a giocare a Buenos Aires, doveva battere l’Italia nella terza partita del girone eliminatorio. Fu un altro lavoro per Klein, che nel frastuono di 100.000 argentini urlanti condusse la gara con la consueta autorevolezza, guadagnando il rispetto dei giocatori e respingendo le pressioni del pubblico. Anche grazie alla sua direzione imparziale, l’Italia poté registrare una delle sue vittorie più prestigiose, con una memorabile rete di Roberto Bettega.
In un altro Mondiale, dopo una tale prestazione applaudita da tutta la stampa internazionale, Klein sarebbe stato il candidato ideale per arbitrare la finale, invece proprio la sua condotta a “schiena dritta” gli alienò il favore degli argentini, che pretesero un arbitro più malleabile. La trattativa non produsse un accordo e fu necessario votare: fu la scelta del presidente UEFA, Artemio Franchi, a far pendere la bilancia a favore dell’italiano Sergio Gonella, a svantaggio dell’uruguayano Barreto, gradito agli argentini. Klein fu dirottato alla finalina Brasile-Italia e vide in televisione l’Argentina trionfare sull’Olanda al termine di una gara che Gonella non seppe controllare e che in qualche frangente fu una vera e propria caccia all’uomo.
La maledizione delle origini lo perseguitò anche ai successivi Mondiali spagnoli. Con Algeria e Kuwait qualificate per la fase finale, i media arabi minacciarono di boicottare la rassegna se fosse stato consentito a un ebreo di arbitrare. La FIFA resistette alle intimidazioni, nominò Klein ma concesse che il suo nome fosse cancellato dagli schermi nelle trasmissioni per i paesi arabi.
Poi, gli eventi presero una piega drammatica. Il 3 giugno 1982, l’ambasciatore israeliano in Inghilterra, Schlomo Argov, fu oggetto di un’aggressione da parte di terroristi palestinesi, che gli spararono alla testa. Argov restò in coma per tre mesi e l’attentato fu la causa scatenante della guerra in Libano. Il 7 giugno, Klein seppe che il figlio Amit era stato inviato in prima linea e immediatamente dichiarò di non essere nelle condizioni psicologiche adatte a svolgere il suo lavoro. Accettò di fare il guardalinee e il 18 giugno affiancò il tedesco Eschweiler in italia-Perù. Al ritorno in albergo, trovò una lettera di Amit, che gli annunciava di essere in buona salute e lo incitava a tornare ad arbitrare. La sera stessa, finalmente, padre e figlio si parlarono al telefono: Klein era adesso libero di tornare protagonista.
Al secondo turno era in programma la sfida decisiva fra Brasile e Italia. La FIFA schierò il suo fischietto più affidabile, ma Klein non era per niente eccitato: «Pensavo che i brasiliani avrebbero vinto agevolmente e dissi ai guardalinee che nessuno avrebbe ricordato quella partita da lì a tre mesi, ma quando Rossi segnò il 2-1 capì che eravamo nel bel mezzo di una partita storica». Sul punteggio di 1-1, Zico chiese un rigore per una trattenuta di Gentile, che addirittura gli strappò la maglia: «L’avrei concesso senza esitazione e mostrato a Gentile il secondo cartellino giallo, ma il guardalinee aveva già segnalato un fuorigioco. Zico non accettò la mia decisione e continuava a mostrarmi la maglia lacerata, allora gli risposi di andare subito a cambiarsela!».
La direzione di Klein non fu esente da errori, come ricordano bene soprattutto i tifosi viola, per via della rete del 4-2 ingiustamente annullata ad Antognoni. Tuttavia, all’ultimo minuto di quella che sarebbe stata la sua ultima gara di Coppa del Mondo, la straordinaria condizione atletica consentì al 48enne Klein di beneficiare di un’eccellente angolo visivo nel momento in cui Zoff bloccò sulla linea il colpo di testa di Oscar: mentre i carioca reclamavano il gol, il fischietto israeliano fece cenno di proseguire.
L’Italia vinse 3-2 e volò in finale contro la Germania Ovest, dove però non arrivò Klein. Fra imbarazzi e mezze ammissioni, la Commissione arbitrale pensò di non dispiacere i tedeschi per ovvie, storiche ragioni: insieme al rumeno Rainea, Klein affiancò così l’arbitro brasiliano Coelho come segnalinee.
Al dispiacere per aver mancato l’ultima occasione di arbitrare una finale di Coppa del Mondo, Klein dovette aggiungere la beffa preparatagli dai goffi funzionari della FIFA, che, forse credendo di offrirgli un premio di consolazione, trovarono un patetico compromesso e lo indicarono come arbitro della… ripetizione!