Nelson Mandela e l’irresistibile forza simbolica dello sport

Nelson Mandela con Pienaar

Lo sport è essenziale per la salute, ma soprattutto per la pace della mente.

Nelson Mandela

 

Alcune fonti riportano che Winston Churchill, il Primo ministro che guidò la Gran Bretagna durante la II Guerra Mondiale, abbia svelato in questi termini il segreto della sua longevità: “Lo sport: mai praticato!”. Si può esser sicuri che Nelson Mandela, passato a miglior vita il 5 dicembre scorso alla bella età di 95 anni, non avrebbe mai sottoscritto una tale affermazione.

Non solo Mandela aveva praticato il pugilato e l’atletica in gioventù, organizzato il campionato di calcio fra i detenuti politici del carcere di Robben Island, resistito alla decadenza fisica e psicologica durante i 27 anni di prigionia con quotidiane flessioni e corse (sul posto!) nell’angusta cella dov’era confinato, o sfidato la tempra delle sue guardie del corpo una volta presidente con le giornaliere sessioni di footing prima dell’alba. Soprattutto, il più celebre e venerato leader anti-apartheid sapeva che l’enorme potere simbolico dello sport può ispirare e unire le persone, può sostituire la speranza alla disperazione e fungere da catalizzatore per cambiamenti sociali più generali.

Così accadde con la vittoria degli Springboks, come è soprannominata la nazionale sudafricana di rugby, nella Coppa del Mondo del 1995, disputata proprio in Sud Africa, che da poco aveva abolito l'ultra-decennale politica segregazionista e visto Mandela passare da prigioniero politico condannato a vita a primo presidente della Repubblica eletto a suffragio universale.

Per capire la portata epocale degli eventi che andarono in scena all’inizio di quell’inverno australe, occorre riavvolgere il nastro del tempo. Mandela era stato arrestato nel 1962 per attività anti-governativa. In qualità di comandante dell’ala militare dell’African National Congress (ANC), l’organizzazione che rappresentava la maggioranza della popolazione nera e che lottava contro l’apartheid, Mandela era considerato un terrorista e un assassino dalla minoranza bianca che deteneva il potere. Come tale, nel 1964, fu condannato all’ergastolo ed evitò la pena di morte solo per la montante indignazione internazionale contro l’odioso regime sudafricano. Nel penitenziario di massima sicurezza di Robben Island, rimase per oltre un quarto di secolo, fino a che fu liberato l’11 febbraio 1990. Dopo estenuanti negoziati politici e tragici spargimenti di sangue, con decine di morti e scontri feroci fra le opposte fazioni, le prime elezioni libere del 27 aprile 1994 consentirono l’ascesa di Mandela alla presidenza della Repubblica.

L’uscita dei neri da uno stato di minorità politica e sociale non metteva tuttavia il paese al riparo dal rischio di cruente sollevazioni. Anzi, alimentava l’odio degli oltranzisti bianchi riuniti sotto insegne neo-naziste: armati fino ai denti e addestrati militarmente, minacciavano la guerra civile e il ricorso alla lotta armata. Mandela comprese che la democrazia non sarebbe sopravvissuta senza pace e che non ci sarebbe stata libertà senza riconciliazione. Per raggiungere entrambi gli obiettivi impegnò tutte le sue forze e negli imminenti campionati del mondo di rugby vide un’opportunità da sfruttare.

Il rugby però era lo sport della minoranza bianca e gli Springboks erano il simbolo più esecrato del regime razzista: se i neri andavano allo stadio per le partite internazionali, sedendo in uno spazio confinato e lontano dalle accoglienti tribune che ospitavano gli Afrikaner, facevano regolarmente il tifo per la nazionale ospite. Mandela non desistette e incontrò François Pienaar, il capitano della squadra, per guadagnarlo alla sua causa. Furono organizzati momenti di “avvicinamento” fra la nazionale e la popolazione nera, come gli allenamenti aperti al pubblico. I giocatori della squadra, nella quale l’unico coloured era Chester Williams, impararono a memoria un vecchio canto di resistenza in lingua xhosa, che era diventato il nuovo inno nazionale.

Il 25 maggio 1995, il Sud Africa giocò la prima partita contro i campioni in carica dell’Australia, imbattuti da oltre un anno. Meravigliati e galvanizzati dal sostegno unitario dello stadio di Città del Capo, strapieno di bianchi e neri, gli Springboks vinsero il match. Il giorno dopo, i giocatori furono condotti a visitare la prigione di Robben Island e molti piansero: come aveva potuto il loro governo trattare con tanta crudeltà una persona generosa come Mandela e tutti i suoi simili? La squadra aveva ora compreso di essere in missione per uno scopo assai più importante della Coppa del Mondo e sull’onda dell’entusiasmo gli incontri successivi furono dei facili successi, fino alla difficile semifinale contro la Francia, programmata nella città di Durban.

Il giorno prima, Mandela si presentò a un raduno dell’ANC a Kwazulu, indossando il cappellino verde degli Springboks. Il malumore serpeggiò fra i militanti e Mandela spese tutto il suo ascendente per chiedere alla folla di tifare per gli Springboks nell’imminente semifinale. L’indomani, Durban fu investita da una pioggia insistente, che impedì per tre volte ai giocatori di scendere in campo. L’incontro fu posticipato, mettendo a repentaglio la stessa possibilità che il Sud Africa potesse giocarsi le chance di approdare in finale, visto che il regolamento del torneo non contemplava il rinvio ma l’assegnazione del successo alla squadra che aveva accumulato meno sanzioni disciplinari. E quella squadra era la Francia. Infine, smise di piovere e su un campo ridotto a un acquitrino, i giocatori si contesero la vittoria in una battaglia di nervi, dedizione e resistenza fisica. Gli Springboks guadagnarono un piccolo vantaggio, che difesero strenuamente fino alla fine, prevalendo per 15 a 12.

In finale, erano attesi dagli All Blacks della Nuova Zelanda, da ogni esperto considerati la squadra più forte del pianeta, più che mai rinforzata dall’esplosione di Jonah Lomu, un gigante polinesiano di 120 kg in grado correre i 100 metri in meno di 11 secondi, che in semifinale aveva demolito l’Inghilterra praticamente da solo, mettendo a terra addirittura quattro mete e sbalordendo il mondo per la sua potenza incontenibile. Il 24 giugno 1995, l’atto conclusivo ebbe luogo a Johannesburg in uno stadio gremito e festante.  Prima del fischio d’inizio, Mandela visitò la squadra negli spogliatoi e compì un giro di campo con indosso la maglia n. 6 di Pienaar e l’ormai familiare cappellino verde. I 63.000 spettatori risposero all’unisono urlando il nome del Presidente: “Nelson, Nelson, Nelson!”. Gli antichi carcerieri e le vittime della violenza, gli afrikaner benestanti e i bantu impoveriti da 40 anni di apartheid, erano ora concordi nel celebrare il solo uomo che poteva traghettare il Sud Africa verso l’approdo condiviso di una democrazia inclusiva. Nel frattempo, con il cuore pieno di fierezza come il capitano Pienaar che tenne serrate le mascelle per non scoppiare a piangere durante l’esecuzione dell’inno nazionale, gli spettatori potevano incitare gli Springboks, che da simbolo di odio e divisione erano diventati l’orgoglio di un’intera nazione.

Come nella sceneggiatura di un film hollywodiano, la partita fu serrata e palpitante. I due “quindici” non riuscirono ad andare in meta e Lomu fu in qualche modo neutralizzato. Al termine dei tempi regolamentari, il punteggio era di 9 pari e si resero necessari i supplementari: la parità si ripropose sul 12-12, fino a che il calcio del decisivo 15-12 fu piazzato da Joel Stransky, l’unico giocatore ebreo della nazionale sudafricana. Fu l’apoteosi: Mandela tornò sul terreno di gioco per consegnare la coppa al capitano Pienaar, mentre l’intero paese, per la prima volta unito nella sua storia, si lasciava andare a una delirante celebrazione.

Mandela era riuscito nel suo intento. Non ci fu nessuna guerra civile, né terrorismo da parte dell’ultra-destra. Le tensioni come d’incanto si sciolsero nei festeggiamenti. Quel giorno, la “Nazione arcobaleno” iniziò il lungo cammino verso una stabile democrazia multirazziale, grazie alla tenacia di un condottiero carismatico e alle evoluzioni di una palla ovale.

Paolo Bruschi