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GoBlog  - Paolo Bruschi


Una prece per il dottore

Zico e Socrates

Zico e Socrates

Il calcio è come camminare: da solo, svincolato da un contesto sociale, non è nulla. Quando vai a piedi, non fai niente di speciale: se però a piedi vai in Parlamento a far valere le tue idee, cambia tutto. Così il calcio: se diventa un veicolo per educare la gente, allora è un mezzo formidabile

Sòcrates Sampaio de Souza Vieira de Oliveira

Morì il 4 dicembre di due anni fa, vinto da un’infezione intestinale risultata fatale a un corpo debilitato dalla cirrosi epatica, malattia tipica di chi è dedito all’abuso di alcool. Sòcrates Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, meglio conosciuto come Socrates, il calciatore che capitanava il Brasile nella famosa partita dei Mondiali del 1982, che spinse gli Azzurri verso la conquista della Coppa del Mondo, non rinunciò mai al piacere di una bevuta, benché da laureato in medicina qual era conoscesse bene i danni che il bere reca alla salute.

Poiché Socrates può essere considerato il padre putativo di questo blog (si veda il post http://2017.gonews.it/2013/socrates-pensare-con-i-piedi-un-filosofo-sui-campi-di-calcio/#.UqDz8yeIqAg), mi piace raccontare che “Il tacco di Dio” (com’era anche soprannominato per la sua peculiare caratteristica tecnica) fu la prima celebrità con cui ebbi un contatto ravvicinato di terzo tipo - se si fa eccezione, beninteso, per l'apparizione pontificia di Gianni Morandi al balcone della casa natia a Monghidoro, dove fui portato come in processione dalla Madonna alla tenerissima età di 4 anni.

Durante il suo breve e inglorioso transito fiorentino (nel 1984-85 Socrates vestì la maglia della Fiorentina), comparve sulle pagine del giornalino scolastico (titolato "1984", ça va sans dire) del Liceo “Agnoletti” di Sesto Fiorentino che frequentavo, una lunga intervista che Socrates rilasciò a una ridotta pattuglia di fortunati della quale feci orgogliosamente parte.

Non ricordo come capitò, ma Socrates divenne compagno di bisbocce dei genitori di una mia compagna di classe, il che da una parte ci mise nella condizione di prevedere facilmente le sue più nefande apparizioni agonistiche con la casacca viola (dati i dettagliatissimi resoconti che ricevevamo principalmente il venerdì e il sabato mattina, dei quali soprattutto ci interessava l'ora di ritiro e il tipo di alcoolici bevuti), e dall'altra ci consentì di organizzare un impensabile scoop giornalistico.

Non fu comprensibilmente facile distillare i nomi dei privilegiati che avrebbero intervistato il campione carioca e, contrariamente a quello che potrebbe far pensare l’argomento del blog, vi fui incluso non per i vasti meriti giornalistico-sportivi, ma in quanto titolare della funzione di “commissario del popolo allo sport” della sezione FGCI di Sesto Fiorentino, cui ero doverosamente iscritto. Nell'attivo che precedette la spedizione a Grassina, dove dimorava Socrates, fu democraticamente decisa la batteria delle domande, inevitabilmente incentrate sui risvolti socio-politici della professione di calciatore e sulla fama di giocatore impegnato di cui O Magrao era abbondantemente circonfuso.

A malincuore, ma in osservanza del primato allora inattaccato del centralismo democratico, accettai di buon cuore e mi accodai alla rappresentanza che fece rotta verso la villa del brasiliano, dove l'intervista, con impeccabile rispetto del mandato ricevuto, fu condotta dal ben più consapevole segretario della sezione, che rispettosamente chiese l'autorevole parere di Socrates sulla dittatura brasiliana, sulla spaventosa condizione delle favelas, sull'ingerenza yankee in America Latina, sulla teologia della liberazione e via delirando.

Purtroppo, ho ricordi assai vaghi di quell'incontro e nessun documento fotografico. Rammento solo una certa trasandatezza generale, perfettamente in linea con il personaggio, che ogni tanto degnava di uno sguardo distratto i numerosi pargoli che scorazzavano per il giardino, mentre la moglie li chiamava invano dalla finestra.

La parata di Zoff

Ero evidentemente poco lucido e sicuramente in balia di un sogno a occhi aperti: lo guardavo e mi pareva di vederlo, in maglia giallo-oro, caracollare apparentemente lento da sinistra a destra e scagliare un fendente imprendibile sotto il "sette" del portiere sovietico Daseav, e poi festeggiare lo sconosciuto Eder che segnava gol memorabili, e dopo gridare ordini sul prato arroventato di Barcellona agli increduli compagni, mentre i figli di Bearzot gli preparavano la festa; ponevo una domanda di cui non mi interessava alcunché e scrutavo i suoi piedi, cercando di capire come avevano potuto beffare Zoff sul primo palo dopo un breve scatto che aveva tagliato fuori Scirea.

Avrei voluto chiedergli cosa aveva pensato dopo i primi gol di Paolo Rossi, se con sollievo aveva considerato definitivo il sofferto pareggio di Falcao e qual era stata la sua reazione al conclusivo 3-2 segnato da Pablito; chi aveva incornato il pallone che Zoff bloccò sulla linea (Leandro? Oscar? Paulo Isidoro?) e che non avevo visto in diretta, perché incapace di reggere la tensione avevo spento la TV e mi ero rifugiato in camera con le porte chiuse.

Avrei voluto sapere cosa si dissero alla fine della partita; se piansero, se Toninho Cerezo aveva conservato la sua tipica espressione gioiosa anche dopo il novantesimo, chi aveva urlato contro chi; se Zico era triste perché consapevole di aver gettato l'ultima occasione di vincere un Mondiale; se il temerario allenatore Telé Santana, che aveva replicato il centrocampo più offensivo della storia del football dai tempi dei 5-numeri-dieci-5 del Ct Zagalo (Jairzinho-Gerson-Tostao-Rivelino-Pelè), aveva provato a giustificarsi o se la democrazia corinthiana era stata importata anche nella Selecao e alla disfatta aveva fatto seguito una pacata discussione sugli errori commessi, sulle cause e i responsabili, con le opposte fazioni schierate come in un parlamento nello spogliatoio del Sarria; e ancora se dopo la sconfitta tifarono Italia o semplicemente spensero il collegamento per non volerne più sapere; se riuscirono a guardare in faccia i tifosi che li attesero all’aeroporto di Rio de Janeiro, dove arrivarono con il marchio dei bellissimi ma perdenti.

Invece, assistetti compuntamente alla raffica di domande serie e importanti, alle risposte ponderate e significative, e non imparai niente di come sempre il dolore si giustappone alla gioia, né fu possibile rivivere le inebrianti emozioni del Mundial spagnolo.

Oppure, è tutto un ricordo incerto e sfumato, come quello cui si abbandona nella fumeria di oppio di “C’era una volta in America” Robert “Noodles” De Niro. Sospeso fra sogno e realtà.

Paolo Bruschi

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