In France, a skinny man
died of a big disease with a little name
by chance his girlfriend came across a needle
and soon she did the same
Sign o’ the times - Prince
Sarebbe facile e suggestivo iniziare questo pezzo dicendo che il 7 novembre 1991 fu il giorno in cui la sorte cancellò per sempre l’allegria dal volto di Earvin “Magic” Johnson. Invece, chi ha voglia e tempo, può guardare su Youtube la conferenza stampa durante la quale l’asso dei Los Angeles Lakers annunciò il suo immediato ritiro dal basket per aver contratto il virus dell’HIV e rendersi conto che il sorriso adornò il viso del campione anche in quella dolorosa circostanza.
Per comprendere, a distanza di 22 anni, la portata planetaria e il significato sociale di quello shock, occorre considerare che all’epoca praticamente il 100% delle persone infettate dall’HIV sviluppavano l’Aids e morivano nel giro di poco tempo; che la peste del XX secolo, con il suo stigma di vizio e depravazione, pareva colpire come una giusta punizione divina solo certe categorie di “dannati”; che il celebrato Rudolf Nureyev ancora nell’estate del 1991 rifiutava di chiamare con il suo nome la malattia che lo stava uccidendo e che la rock-star Freddie Mercury cercò di tenere nascosta la sua agonia anche agli invadenti tabloid britannici fino a meno di 24 ore dalla sua morte, che avvenne solo 17 giorni dopo l’annuncio di Magic.
La notizia della positività di Magic Johnson fece il giro del mondo in un baleno e squarciò il velo di ignoranza dietro il quale si riparavano i benpensanti: l’Aids poteva colpire anche le persone eterosessuali e non solo quelle fra queste che dovevano subire specifiche cure per patologie particolari – sia il tennista Arthur Ashe che lo scrittore Isaac Asimov contrassero il virus che li avrebbe portati alla morte a causa di una trasfusione di sangue infetto. Come riportò il New York Times, in seguito al messaggio di Magic, il numero delle persone che si sottoponevano nella “Grande Mela” al test anti-HIV aumentò del 60% nel giro di un mese, allungando le liste di attesa da 0 a 7 settimane.
L’improvvisa e forzata uscita di scena di Magic Johnson fu un cataclisma anche e soprattutto per la pallacanestro. Magic, come pochi altri nella storia dello sport, aveva cambiato il basket con le sue caratteristiche uniche. Una guardia di 206 cm non si era mai vista prima, né il controllo di palla e una tale coordinazione neuro-muscolare erano mai stati associati a un uomo di quella mole, né infine era mai comparso un giocatore che dispensava sorrisi e gioia ad ogni azione, diffondendo un inesauribile entusiasmo fanciullesco per la pura bellezza del gioco. Gli appassionati non credevano ai propri occhi: come poteva un individuo di quella stazza compiere quei gesti con la palla e costringere il proprio corpo a quelle acrobatiche evoluzioni? Era pura magia!
A 32 anni, Magic era ancora l’icona più popolare della Lega a stelle e strisce (NBA), benché proprio nel giugno precedente avesse dovuto cedere il titolo NBA agli arrembanti Chicago Bulls di Michael “Air” Jordan. Con il suo ritiro, il passaggio di consegne fra le due superstar acquisì una forza simbolica definitiva e non si può fare a meno di pensare che le carriere dei due più grandi giocatori di tutti i tempi si erano già intersecate molti anni prima, senza che nessuno dei due potesse esserne consapevole. Per capire come, bisogna tornare al 1979 e spiegare preventivamente che secondo la regola dello sport professionistico americano, le squadre con il peggior piazzamento hanno il diritto nel campionato successivo di scegliere per prime i giocatori che escono dall’università, i cui tornei rappresentano il maggior serbatoio di talenti dei campionati maggiori. Non solo: le squadre possono vendere, acquisire o scambiare le proprie scelte come compensazione di operazioni di mercato.
Ebbene, nel 1976, i Los Angeles Lakers avevano acquisito dai New Orleans Jazz la loro prima scelta del 1979. Nel campionato 1978-79, i Jazz avevano occupato l’ultimo posto fra le squadre dell’Est e i Chicago Bulls fra quelle dell’Ovest: la regola allora vigente stabiliva che l’ordine di scelta sarebbe stato deciso dal lancio di una moneta e poiché i Lakers avevano ricevuto la prima scelta dei Jazz, il sorteggio vide protagonisti Lakers e Bulls. Non si trattava di un particolare secondario perché fra i giocatori provenienti dall’università nell’estate del 1979 figurava appunto Earvin “Magic” Johnson, che aveva appena condotto Michigan State alla conquista del titolo universitario (NCAA) e che con il suo talento prometteva di far impennare le prestazioni della squadra che lo avrebbe ingaggiato.
Prima del sorteggio, Magic fece sapere che il suo obiettivo era di giocare con Kareem Abdul Jabbar, il pivot leggendario che capitanava la franchigia di Los Angeles già da diversi anni, senza però averla mai guidata alla conquista del campionato. Se invece il fato avesse premiato i Bulls, Magic dichiarò che sarebbe restato un altro anno al college. Era dunque questione di “testa o croce”: Chicago condusse un sondaggio fra i propri tifosi, che produsse una leggera maggioranza per “testa”; i Lakers accettarono “croce” e furono baciati dalla fortuna: Magic vestì così la maglia giallo-viola n. 32 e fece i bagagli per la costa occidentale.
Il suo debutto nel campionato NBA avvenne il 12 ottobre 1979, contro i San Diego Clippers. La gara fu decisa da un canestro vincente di Jabbar e per la felicità Magic si lanciò al collo del più celebre compagno in un abbraccio interminabile, al punto che il compassato Kareem, prima di finire soffocato, dovette scrollarselo di dosso ricordandogli che la stagione regolare sarebbe ancora continuata per 81 (!) partite.
Con Magic in quintetto, i Lakers scalarono la graduatoria della Lega e dominarono la Western Conference, pronti a raccogliere la sfida della miglior squadra dell’Est. Nel maggio del 1980, la finale NBA al meglio delle 7 partite oppose i Lakers ai Philadelphia 76ers di Julius “Doctor J” Erving. Dopo 5 gare, i Lakers conducevano per 3-2, ma avrebbero dovuto giocare la sesta partita in trasferta e senza Jabbar, che si era infortunato alla caviglia mentre stava tenendo una media di oltre 33 punti a gara. Il 16 maggio, allo “Spectrum” di Philadelphia, fra la sorpresa generale, l’allenatore dei Lakers Paul Westhead schierò proprio Magic al posto dell’infortunato Jabbar. Magic saltò per la palla a due e da lì iniziò il più inatteso degli show. Il giovane play-maker tenne testa ai centri avversari al punto da caricarsi sulle spalle i compagni e trascinarli alla vittoria con una prestazione mai vista: giocando da centro, da guardia e da ala in momenti diversi della partita, Magic mise insieme 42 punti, 15 rimbalzi e 7 assist e sull’onda dell’esaltazione e dello stupore che aveva generato divenne il solo esordiente nella storia della NBA a vincere il riconoscimento di miglior giocatore della finali.
I Chicago Bulls, che dopo la beffa della monetina avevano languito per un’altra stagione nei bassifondi della classifica, videro crescer il proprio rammarico. Erano intimamente convinti che sarebbero riusciti a persuadere Magic ad accettare il trasferimento nella Windy City e dunque recriminavano contro il fato avverso che li aveva privati del giocatore che poteva issare il club ai vertici del movimento cestistico americano. Tuttavia - e qui sta l’ironia del destino e uno di quegli snodi del caso che tracciano le linee dell’esistenza almeno quanto le decisioni ponderate e consapevoli -, se Magic avesse vestito i colori dei Bulls, con ogni probabilità Chicago non avrebbe avuto un ranking così basso da consentirgli di scegliere Michael Jordan nel 1984. I sei campionati che Jordan e i Bulls accumularono negli anni ’90 furono pertanto resi possibili da quel dollaro beffardo, che aveva indirizzato Magic Johnson verso il sole della California e preparato le condizioni per spedire Jordan nella gelida e afosa città del blues.