Vitas Gerulaitis, l'ultimo playboy

Leggendario viveur e amico generoso, il tennista americano mise il divertimento davanti al successo


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Il corpo vestito sul letto sfatto, i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle fredde, la casa vuota di fronte all’oceano, parvero tutti indizi chiari e inequivocabili di una fine attesa. E che quel cadavere, in vita, fosse dedito a frequenti stravizi e all’uso di stupefacenti, indusse non pochi cronisti ad ascrivere il decesso all’ennesimo caso di overdose fatale.

Invece, Vytautas Kevin Gerulaitis, per tutti semplicemente Vitas, l’appariscente, istrionico ed esuberante ex-prodigio del tennis, che fu trovato morto nel bel cottage di un amico, di fronte alle spiagge esclusive di Long Island, il 17 settembre 1994, fu vittima di un banale incidente domestico, avvelenato dal monossido di carbonio filtrato dall’impianto di riscaldamento difettoso.

Negli ultimi due anni, Gerulaitis sembrava essere uscito vittorioso dalla decennale battaglia contro la dipendenza dalla cocaina, per cui era anche passato da un lungo periodo di disintossicazione in clinica. Da poco, aveva intrapreso una promettente carriera come commentatore per la ESPN e aveva ritrovato il gusto per il gioco nel circuito riservato alle vecchie glorie. Proprio prima di morire, aveva disputato a Seattle un doppio con Bjorn Borg, Jimmy Connors e John Lloyd, durante il quale aveva riportato un infortunio alla schiena, che lo aveva spinto a ritirarsi dal torneo e a ripartire per New York. Qui aveva accettato di prestare il suo nome a un evento benefico organizzato dal circolo di East Hampton e prima a un party organizzato dall’anchor-man Jack Whitaker, dove però non arrivò mai.

McEnroe e Gerulaitis con Steve Tyler, il cantante degli Aerosmith

McEnroe e Gerulaitis con Steve Tyler, il cantante degli Aerosmith

Proprio la passione per la vita notturna, il debole per le auto di lusso, l’amore per la musica e le belle ragazze, l’avevano reso celebre negli anni ’70, quando alternava i successi sui court di tutto il mondo alle serate passate in compagnia di Liza Mannelli, John Travolta, Mick Jagger e degli altri protagonisti del jet-set newyorkese, come Andy Warhol, che lo immortalò in un ritratto divenuto poi un’opera-cult. Le sue apparizioni al night-club “Studio 54”, dove sfoggiava gli abiti acquistati in faraoniche sessioni di shopping a Parigi e Londra, o suonava la chitarra con rock-star planetarie, divennero altrettanto famose della sua mortifera volée.

Il ritratto di Vitas Gerulaitis fatto da Andy Warhol

Il ritratto di Vitas Gerulaitis fatto da Andy Warhol

L’edonismo sfrenato era forse la reazione al passato di stenti e privazioni patito dalla sua famiglia. Entrambi i genitori erano originari della Lituania, da cui erano fuggiti quando il paese fu occupato dall’Armata Rossa all’inizio della Seconda Guerra mondiale, in ossequio alle clausole segrete del Patto Molotov-Ribbentrop. Il padre Vitas senior e la madre Aldona si conobbero a Regensburg, in Germania, dov’erano riparati, e convolarono a nozze nel campo profughi di Augusta. Nel 1949, al pari di altri 30.000 connazionali, ottennero il visto per gli Stati Uniti. Vitas nacque nel 1954, a Brooklyn, e vi imparò i segreti della racchetta sui campi pubblici di Forest Park, instradato dal padre, che era stato campione lituano e si guadagnava da vivere in America come maestro di tennis. Questo passato di prolungate sofferenze fu definitivamente accantonato, quando Gerulaitis comprò alla famiglia una lussuosa magione a Long Island, con i primi guadagni da professionista.

In carriera, accumulò quasi tre milioni di dollari in soli premi e vinse 25 tornei, salendo fino al terzo posto della classifica mondiale nel 1978 e restando fra i primi dieci per oltre sei anni, in un periodo nel quale il circo del tennis era cannibalizzato da Borg, Connors e John McEnroe. Di tutti loro, Gerulaitis era amico ancor prima che avversario. Con l’“orso” svedese, in particolare, aveva stretto un profondo legame. Non solo i due erano soliti condividere la casa di Vitas durante gli Us Open e allenarsi insieme, ma il glaciale campione scandinavo si lasciava guidare dall’esperto sodale anche alla scoperta dei piaceri mondani della “Grande mela”.

Quegli amici, però, Vitas non riusciva proprio a batterli, tanto che si cucì addosso la fama di giocatore incapace di vincere le partite importanti. Forse per i fantasmi che tormentavano la sua anima e che in campo cercava di scacciare cambiando meticolosamente e maniacalmente il grip alla racchetta, o magari perché l’affetto gli impediva di dare fondo a tutta la cattiveria agonistica che sarebbe servita per prevalere, fatto sta che Gerulaitis registrò dei memorabili record negativi contro i suoi coetanei più dotati. A Borg lasciò strada 16 volte su 16, inchinandosi per 8-6 al quinto set nella semifinale di Wimbledon del 1977, da molti considerata fra i più straordinari incontri della storia dei Championships, e cedendo quasi senza opporre resistenza nella finale del Roland Garros del 1980. Al Master del 1979, quando finalmente interruppe un’ignominiosa striscia di 16 sconfitte consecutive contro “Jimbo”, divertì i giornalisti con la sua pungente auto-ironia: «E che questo sia di monito per tutti: nessuno batte Gerulaitis 17 volte di seguito!».

McEnroe lo superò 11 volte su 14, sottraendogli la finale di Flushing Meadow del 1979. Così, l’unico major della sua carriera lo conquistò nel 1977 in Australia, in un periodo nel quale gli Australian Open soffrivano una fase di decadenza, venendo snobbati dai giocatori più forti. In finale, Gerulaitis si trovò di fronte John Lloyd, un inglese mediocre divenuto una celebrità più per il matrimonio con Chris Evert che per la forza del suo tennis. Manco a dirlo, i due erano buoni compagni. Si erano allenati insieme durante la permanenza in Australia e insieme se l’erano spassata nelle discoteche di Melbourne.

Dopo che ebbero vinto le rispettive semifinali, a Lloyd sembrò innaturale prepararsi con l’amico-rivale per lo scontro che li avrebbe messi l’uno contro l’altro, ma Vitas fu perentorio con il suo abituale disincanto: «Pensi forse che impareremmo qualcosa di nuovo sul nostro gioco? Certo che no! Quindi, domattina ci alleneremo insieme come sempre!».

La proverbiale rapidità di gambe, lo spavaldo slice di rovescio e l’etereo gioco di volo gli garantirono un vantaggio di due set, ma Lloyd rinvenne di misura nel terzo set, aggiudicandosi anche il quarto, allorché Gerulaitis fu colto dai crampi e ricorse più volte al fisioterapista. Facendo leva sul suo incrollabile animus pugnandi, all’inizio dell’ultima partita, Gerulaitis fu ancora capace di sprintare e, frastornato da un tale, miracoloso recupero, il britannico si arrese nettamente per 6-2.

In conferenza stampa, Lloyd commentò: «È la delusione più grande della mia vita, ma se avessi potuto scegliere qualcuno da cui perdere una finale dello Slam, quello sarebbe stato Vitas!».

Paolo Bruschi