Oltre 400 gol e ben 21 partite ai Mondiali non bastarono a Uns Uwe per vincere la Coppa del Mondo, ma gli guadagnarono l'affetto dei tifosi tedeschi
Il primo Concorde si alzava in volo nei cieli francesi, 600.000 giovani accorrevano al festival rock dell’Isola di Wight, ma la musica ammutoliva per lo scioglimento dei Beatles e le morti di Jimi Hendrix e Janis Joplin; il pilota Jochen Rindt si laureava campione di Formula 1 da morto; Muammar Gheddafi si insediava a capo della Libia, il cancelliere Willy Brandt si inginocchiava di fronte al monumento della rivolta del Ghetto di Varsavia, si teneva il funerale di Charles De Gaulle e Salvador Allende veniva eletto presidente del Cile; in Italia entravano in vigore lo Statuto dei lavoratori e la legge sul divorzio, mentre il 31 maggio 1970 un terremoto uccideva 20.000 persone in Perù e nello stesso giorno in Messico prendevano a rotolare a duemila metri di quota i palloni della nona edizione della Coppa del Mondo di calcio.
I Mondiali messicani furono fra i più spettacolari mai andati in scena. L’altitudine e la rarefazione dell’aria impedirono il gioco fisico e ostruzionistico che aveva caratterizzato le due precedenti rassegne, facendo emergere le formazioni più tecniche. La vittoria arrise per la terza volta al Brasile, che si aggiudicò definitivamente il trofeo intitolato a Jules Rimet. Guidata dal sommo Pelé, la Seleção aveva osato una linea offensiva che comprendeva, oltre a O Rey, altri quattro giocatori che nei rispettivi club indossavano la fatidica maglia n. 10: Gerson, Tostão, Jairzinho e Rivelino.
Contro una tale combinazione di grazia e talento, nulla poté l’affaticata Italia che Ferruccio Valcareggi aveva impostato sulla staffetta Mazzola-Rivera e che era giunta al rendez-vous conclusivo dopo l’epica semifinale contro la Germania Ovest, superata ai supplementari per 4-3. Si instaurò allora la tradizione favorevole degli azzurri contro i tedeschi, di cui fece in primis le spese il grande Uwe Seeler, che allora capitanava i bianchi allenati da Helmut Schön.
Seeler aveva esordito in nazionale nel 1954, ad appena 17 anni, subito dopo la spedizione vittoriosa ai Mondiali di Svizzera di quell’anno. Alfiere dell’Amburgo, con la cui maglia giocò addirittura per venti anni, rifiutando i tanti milioni che l’Inter gli avrebbe offerto all’inizio degli anni ’60, Seeler era un attaccante tarchiato e generoso, eccezionale in acrobazia e nei colpi di testa, benché fosse alto meno di 170 cm. La fedeltà ai colori della città natale e lo stile di gioco gli conquistarono l’affetto di tutti gli appassionati, che lo soprannominarono Uns Uwe, il “nostro Uwe”, a dimostrazione di un amore che valicava le rivalità fra tifoserie.
Uns Uwe scalò in fretta le gerarchie del movimento calcistico tedesco. Nel 1958 si presentò giovanissimo protagonista in Svezia, dove segnò le sue prime reti iridate e la Germania perse in semifinale contro i padroni di casa, per cedere poi alla Francia nella finalina; in Cile nel 1962, fu la Jugoslavia a fermarne il cammino nei quarti di finale, mentre nel 1966 Seeler e compagni lasciarono il titolo ai padroni di casa inglesi, gentilmente soccorsi dalla terna arbitrale che tramutò in gol il tiro di Geoff Hurst che aveva colpito la traversa ed era rimbalzato sulla linea di porta. Al termine di quella gara, Seeler fu colto dall’obiettivo del fotografo Sven Simon (che aveva scattato anche l’immortale foto di Brandt inginocchiato di fronte alla lapide delle vittime del Ghetto di Varsavia): a testa china, sovrastato dagli orchestrali della banda musicale, Seeler appare l’immagine stessa della disfatta e il simbolo dell’ennesima resa teutonica all’Inghilterra. Dopo quella vittoria, i tifosi inglesi non a caso coniarono il controverso coro “Due guerre mondiali e una coppa del mondo”, anche se la memoria di Seeler è diversa: «Avrei preferito vincere – ha ricordato in una recente intervista alla rivista “Der Spiegel” -, ma alla fine della partita festeggiammo lo stesso in una discoteca londinese, dove gli entusiasti tifosi inglesi tributarono anche a noi ovazioni e applausi. Una volta l’allenatore Sepp Herberger aveva spiegato a noi giocatori cosa avevano fatto i nazisti durante la guerra e capii perché non eravamo accolti bene in giro per l’Europa: il ’66 fu la fine di quel brutto incantesimo».
Nel 1970, alla soglia dei 34 anni, Uns Uwe conservava ancora un’eccezionale gagliardia atletica e l’immutato furore agonistico, così il tecnico Schön gli affidò per l’ultima volta le redini dell’attacco, che già beneficiava della vena realizzativa del neo-arrivato Gerd Müller. Come sovente accade nella vita e quindi nello sport, si presentò l’occasione per vendicare la finale perduta contro gli inglesi. Facile vincitrice del proprio girone eliminatorio, la Deutsche Mannschaft si trovò di fronte nel quarto di finale di Leon l’Inghilterra di Moore e Charlton, che si era inchinata nel primo turno solo al magno Brasile. L’Inghilterra covava una granitica fiducia nelle proprie possibilità, poiché era diffusa l’impressione che la squadra che difendeva la coppa di Wembley fosse più forte di quella che l’aveva conquistata. Un confortante primo tempo, chiuso in vantaggio grazie alla rete di Alan Mullery, parve trasformarsi in una tonificante sgambata verso l’inevitabile vittoria, per la rete di Martin Peters a inizio ripresa. Con il rassicurante vantaggio di 2-0, il coach Alf Ramsey cominciò forse a pensare alla successiva semifinale, senza tenere in debito conto le inesauribili risorse psico-fisiche degli indomiti tedeschi, i quali accorciarono con Franz Beckenbauer a poco più di venti minuti dalla fine. Fermo nei suoi propositi e indispettito dallo scarso fair-play degli avversari, che avevano segnato l’1-2 mentre Francis Lee giaceva a terra per una pallonata al basso ventre, il presuntuoso Ramsey richiamò in panchina Bobby Charlton e poco più tardi lo stesso Peters, solo per assistere sgomento alla rimonta degli avversari: su un lungo e apparentemente innocuo traversone, che avrebbe dovuto essere facile preda della difesa, i marcantoni britannici si lasciarono beffare dal tracagnotto Seeler, che correndo a ritroso fu capace di colpire il pallone con la nuca, imprimendogli una beffarda parabola che terminò la sua corsa in fondo alla porta: «Non fu un gol bellissimo – ha dichiarato anni dopo Seeler – né esito di un movimento che puoi allenare, fu più che altro il risultato dello sforzo di fare di necessità virtù, con un po’ di fortuna. Del resto, non mi sono mai preoccupato della bellezza dei gol, ma solo di segnarne il più possibile!».
Nei supplementari, si affermò per la prima volta la proverbiale tenacia tedesca, che tante vittime avrebbe mietuto da allora in avanti. Fu il letale Müller a completare il recupero, fissando il punteggio sul 3-2 finale. L’ostacolo successivo, come sappiamo bene, si rivelò invalicabile.
La “partita del secolo” decretò l’ennesima delusione per Seeler, che ancora una volta passò vicinissimo alla vittoria nel Mondiale, soltanto per vedersela sfuggire di un soffio – è curioso notare che la rete dell’1-1, che mutò una partita mediocre in un’altalena di emozioni memorabili, fu segnata da Karl Heinz Schnellinger, anch’egli, come Seeler, rimasto senza corona mondiale per la sfortuna di una nascita intempestiva, che lo relegò alle quattro edizioni della Coppa Rimet comprese fra i primi due titoli tedeschi.
Nel 1984, in un discorso alla Knesset, il parlamento israeliano, il cancelliere Helmut Kohl parlò della “grazia della nascita tardiva” per riferirsi al sentimento anti-fascista e pro-repubblicano della sua generazione, che era cresciuta durante i terribili anni del Terzo Reich, senza condividerne le responsabilità ma desumendone un’acuta sensibilità per i rischi del nazionalismo pan-germanico. Più prosaicamente, l’anno di nascita di Seeler, troppo tardo per includerlo nella squadra che vinse il Mondiale nel ’54 e troppo anticipato per consentirgli di far parte della formazione che trionfò nel 1974 (e pure di quella che strappò l’Europeo nel ’72!), lo lasciò ai piedi della massima gloria sportiva, ma lo rese ancora più simpatico ai tifosi di tutto il paese, che l’hanno sempre preferito all’aristocratico Beckenbauer, vincente sì, ma troppo algido e distante dal sentimento popolare.
Paolo Bruschi