Ferenc Puskas, un re senza corona

Ai Mondiali del 1954, uno dei calciatori più forti di sempre fu privato del titolo dalla sfortuna e dalla presunzione


PUSKAS FOOTBALLER

Bill Haley & His Comets incidevano “Rock around the clock”, Arturo Toscanini incappava in un’amnesia dirigendo il suo ultimo concerto a New York, Federico Fellini firmava “La strada”, Jonas Salk sintetizzava il vaccino contro la poliomielite, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, con il decisivo contributo di Walter Bonatti, conquistavano la vetta del K2; gli Stati Uniti eseguivano il primo test termo-nucleare nell’atollo di Bikini, seguiti a stretto giro dall’Unione Sovietica; la Francia veniva sconfitta nella battaglia di Dien Bien Phu e nascevano il Vietnam del Nord e il Vietnam del Sud, iniziava la Guerra d’indipendenza algerina, la CIA organizzava un colpo di stato contro il presidente guatemalteco Jacobo Árbenz innescando una trentennale guerra civile, la Crimea veniva trasferita all’Ucraina dal segretario del PCUS Nikita Chruščëv, Trieste tornava all’Italia e la neonata RAI trasmetteva i Campionati del mondo di calcio, che prendevano il via il 16 giugno 1954 in Svizzera.

Con l’esclusione dell’Argentina, che disertava per la terza volta consecutiva, tutte le maggiori rappresentative erano schierate ai nastri di partenza. La fase finale prevedeva la costituzione di quattro gironi da quattro squadre, in cui figuravano almeno due “teste di serie”, che non si sarebbero incontrate fra di loro. Ogni gruppo sarebbe pertanto consistito di quattro partite, salvo gli spareggi, che in due casi furono necessari. Nel primo, l’Italia del vecchio C.T. Lajos Czeizler cedette ai padroni di casa della Svizzera per 4-1. Nel secondo, la Germania Ovest regolò la Turchia per 7-2 e proseguì il cammino, dopo essere stata umiliata dall’Ungheria di Ferenc Puskas per 8-3 nel secondo incontro del girone eliminatorio.

L’Ungheria era la naturale favorita della competizione, essendo imbattuta dal giugno 1950 e avendo, nel frattempo, vinto le Olimpiadi del 1952 e impartito una severa lezione agli inglesi, superati a Wembley per 6-3, in quella che Rogan Taylor, il biografo inglese di Puskas, definì la prima sconfitta dell’Impero britannico sul suolo patrio dai tempi della battaglia di Hastings del 1066.

Il destino aveva raggruppato una generazione di giocatori memorabili, come il portiere Gyula Grosics, il mediano József Bozsik, le ali Zoltán Czibor e Sandor Kocsis e come Nándor Hidegkuti, il primo centravanti “arretrato” della storia del gioco. Il tecnico Gustav Sebes, un uomo di impeccabili credenziali socialiste, che si era formato come agitatore sindacale negli stabilimenti Renault in Francia, riteneva che lo scontro fra il capitalismo e il comunismo si combattesse anche sui campi di calcio e il suo contributo alla causa del blocco comunista fu l’applicazione di una concezione del football di tipo “socialista”, sorta di “calcio totale” ante-litteram in cui ai giocatori veniva chiesto di operare in tutti i ruoli. Il riferimento al calcio totale non deve apparire azzardato, poiché fu dall’Ungheria che gli olandesi e l’Ajax trassero le basi concettuali della rivoluzione tattica degli anni ’70. Inoltre, considerato che quell’impostazione fu in seguito esportata da Johan Cruijff in Catalogna, imprimendo un’impronta mai più rinnegata allo stile del Barcellona, è parimenti sensato rintracciare le radici dell’odierno tiki-taka dei blaugrana nel credo calcistico di Sebes.

Di quella formidabile macchina da gol, Puskas era il leader incontrastato e il campione più osannato. Con un fisico tarchiato e potente, capace di colpire di testa e saettare in porta con uno dei migliori sinistri che si siano mai visti, si mise in luce nel Kispest, una piccola squadra della periferia di Budapest, dove era nato nel 1927. Coadiuvato da Boszik, Czibor e Kocsis, la portò ai vertici del campionato nazionale e nel 1949, dopo che il partito comunista aveva preso il potere, il Ministero della Difesa fagocitò il club, che fu ribattezzato in Honvéd, da Honvédség, il nome dell’esercito ungherese. Come veicolo di propaganda del regime e serbatoio della nazionale, l’Honvéd dominò la scena ungherese e diffuse la propria fama all’estero. Per farne parte, Puskas fu sottoposto a otto settimane di addestramento militare, al termine del quale fu nominato “sotto-tenente” e in breve “maggiore”, per indiscutibili meriti sportivi.

La rivista sportiva argentina “El Gráfico”, che si è impegnata nello stilare una graduatoria mondiale di tutti i goleador di ogni tempo, colloca l’attaccante ungherese al quarto posto assoluto. Altrettanto sensazionale è la statistica della sua carriera in nazionale, in cui assommò 84 gol in 85  partite. Non è un caso, per completare le informazioni relative alla sua grandezza, che nel 2009 la FIFA abbia istituito il Ferenc Puskas Award, con cui viene premiato l’autore del gol più bello dell’anno.

La “Squadra d’oro”, così fu soprannominata la formazione magiara, iniziò i Mondiali elvetici avendo alle spalle una striscia di 24 vittorie e 3 pareggi. Opposti all’esordio all’inadeguata squadra sud-coreana, stabilirono l’allora primato di reti nella fase finale della Coppa del Mondo vincendo per 9-0. Puskas segnò una doppietta e Kocsis, che avrebbe guadagnato la corona di capocannoniere con 11 gol in sole 5 partite, registrò una tripletta. La partita successiva, gli ungheresi erano attesi dalla Germania Ovest: avendo già battuto sonoramente la Turchia, i tedeschi optarono per uno schieramento largamente rimaneggiato, allo scopo di risparmiare i titolari e camuffare la loro vera forza. Per gli uomini di Sebes fu un’altra passeggiata. Kocsis infilò altri quattro gol, uno lo segnò anche Puskas: «Potevo sentire la palla proprio come un violinista sente il suo strumento, giocavo con la leggerezza di un uccello in volo», scrisse Puskas nella sua autobiografia a proposito dello stato di grazia che lo visitava.

A risultato acquisito, sul punteggio di 5-1, Puskas ricevette la palla nella trequarti avversaria e prima che potesse involarsi in uno dei suoi dribbling proverbiali, fu raggiunto da un durissimo tackle portatogli da tergo dall’arcigno Werner Liebrich, che sullo slancio lo calpestò. Puskas fu portato a bordo campo e, vanamente assistito dai sanitari, lasciò i compagni in inferiorità numerica. L’Ungheria fu ancora capace di chiudere in crescendo, fissando il finale sull’8-3, ma l’indomani fu scoperto che il suo capitano aveva rimediato una microfrattura alla caviglia sinistra. La pedata di Liebrich, che Puskas definì “un calcio feroce”, fu quella che in effetti decise il Mondiale.

Nel secondo turno erano previsti gli scontri a eliminazione diretta e, con una pensata che negli anni sarebbe parsa almeno bizzarra, la FIFA aveva deciso che le squadre che avevano vinto i turni eliminatori si sarebbero incontrate fra di loro, mentre la seconda finalista sarebbe scaturita dalle partite che avrebbero opposto le seconde classificate. Ne scaturì pertanto un tabellone nettamente squilibrato, che nella parte alta concentrava tutte le favorite al successo finale.

Nel quarto di finale, i “meravigliosi magiari” affrontarono il Brasile dei difensori Nilton e Djalma Santos, dell’interno Didì e del centravanti Julinho. Ne uscì una partita violentissima, passata alla storia come la “battaglia di Berna”. L’Ungheria si portò rapidamente sul 2-0, prima che un rigore di Djalma Santos rimettesse in discussione il risultato. Nella ripresa, la concessione di un penalty che Mihály Lantos trasformò per il 3-1 provvisorio, esacerbò gli animi già surriscaldati. I brasiliani accantonarono la proverbiale predilezione per il fioretto e scelsero una condotta brutale, cui subito risposero gli ungheresi con un’aperta caccia all’uomo. Dopo che Julinho ebbe accorciato sul 3-2, Nilton Santos e Josef Bozsik si azzuffarono, inducendo l’arbitro inglese Arthur Ellis a espellerli. Anche l’attaccante carioca Humberto Tozzi fu espulso e prima del fischio finale Kocsis firmò un’altra doppietta personale e il 4-2 conclusivo. Le ostilità continuarono negli spogliatoi, dove si accese una mischia furibonda in cui furono coinvolti i giocatori e gli accompagnatori. Anche Puskas, secondo alcune ricostruzioni, volle lasciare il segno, colpendo con una bottiglia il brasiliano Pinheiro, mentre l’allenatore Sebes fu medicato con quattro punti di sutura al volto. Il Brasile sporse reclamo contro la FIFA, accusando l’arbitro Ellis di esser parte di un complotto comunista che aveva fraudolentemente scippato la vittoria alla cattolica Seleção.

In semifinale, ancora orfana di Puskas, la compagine di Sebes incrociò la strada dell’invitto Uruguay di Varela e Schiaffino, campione in carica e reduce dallo spettacolare successo per 4-2 sull’Inghilterra. Sotto di due reti, i sudamericani si ripresero e mandarono la partita ai supplementari: al termine di una battaglia non meno dura che spettacolare, l’Ungheria dette fondo alle ultime energie e chiuse con un altro 4-2. La qualificazione per l’atto conclusivo era dunque avvenuta a spese delle squadre che si erano contese il titolo quattro anni prima.

Con stupore non inferiore alla soddisfazione, gli ungheresi trovarono ad attenderli in finale i tedeschi, che, come già anticipato, avevano pesantemente battuto nella prima fase. L’unico dubbio concerneva la caviglia di Puskas. Osservandolo ancora claudicante e dolorante la sera prima della finale, Sebes gli chiese chi avrebbe preferito che fosse schierato al suo posto con la maglia n. 10. Facendo ricorso a uno di quei monosillabi perentori che non aveva avuto occasione di usare nella brevissima carriera militare, il “maggiore” rispose seccamente: «Io!». E aggiunse: «Per battere i tedeschi basterebbe Puskas con una gamba sola. Io la gamba posso appoggiarla, quindi il problema non si pone».

Come andò a finire è noto. Avanti di due gol già all’ottavo, il primo segnato proprio da Puskas, la “squadra d’oro” parve accingersi a un nuovo trionfo, solo per essere raggiunta sul 2-2 dopo appena diciotto minuti e infine soccombere a un sinistro del poderoso centravanti Helmut Rahn sul finire del match. Sul risultato di parità, Hidegkuti e Kocsis avevano colpito un palo e una traversa, mentre la rete del pareggio segnata da Puskas allo scadere fu annullata per fuorigioco dal ritardato intervento del guardalinee gallese Mervyn Griffiths, dopo che l’arbitro aveva convalidato il pareggio.

Il gol del pareggio di Puskas, che fu annullato

Il gol del pareggio di Puskas, che fu annullato

Agli occhi dei tedeschi, il successo passò alla storia come il “miracolo di Berna”. Per il resto del mondo fu invece l’ingiusta punizione toccata alla squadra più fenomenale di tutti i tempi e il mancato coronamento di una storia romantica ed emozionante, intessuta di classe e bellezza sportiva.

Tuttavia, l’ego di Puskas aveva avuto le sue responsabilità nel crollo. L’aver imposto la sua presenza in campo con la caviglia in pessimo stato, costrinse di fatto i compagni a giocare in dieci. Anche a causa del terreno pesante per le abbondanti piogge e della solita guardia spietata di Liebrich, il suo apporto fu quasi impalpabile e per la maggior parte del tempo vagò senza costrutto, sbagliando anche i più elementari appoggi.

Per l’Ungheria fu un’autentica tragedia. Se dopo l’oro alle Olimpiadi di Helsinki, il treno che riportava a casa i vincitori era stato rallentato da folle oceaniche che a ogni stazione acclamavano i giocatori, stavolta la squadra dovette soggiornare qualche giorno nella città di Tata, in attesa che a Budapest tornasse la calma: migliaia di tifosi amareggiati erano scesi in piazza per inveire contro il destino e, forse, contro l’opprimente regime sovietico, al punto che alcuni ritengono che i semi della rivolta del 1956 siano stati sparsi proprio dalle manifestazioni successive alla delusione del Mondiale.

Dal punto di vista meramente sportivo, dopo la rassegna iridata, i “meravigliosi magiari” ripresero il discorso da dove l’avevano interrotto e continuarono a “miracol mostrare” in giro per il mondo, fino a che scoppiò la rivoluzione nell’ottobre del 1956. Nella violenza degli scontri di piazza e dopo l’intervento dell’esercito russo, alcuni giornali occidentali riportarono la notizia della morte di Puskas, che invece si trovava in Europa occidentale con l’Honvéd. Al rifiuto di rientrare in patria, la FIFA emise un bando di diciotto mesi contro tutti i membri della squadra.

Puskas rimase inattivo per due anni, durante i quali soggiornò anche in Italia. Sostenne un provino per l’Inter, che lo scartò perché sovrappeso, e per il Manchester United, che tuttavia non poté tesserarlo perché all’epoca la Football Association imponeva ai giocatori stranieri di conoscere l’inglese. Alla fine, Puskas fu ingaggiato dal Real Madrid del presidente Santiago Bernabeu, al termine di un assurdo colloquio nel quale i due dialogarono ciascuno nella propria lingua.

A 31 anni, il “maggiore” intraprese una seconda carriera. Con sua stessa sorpresa, riguadagnò in breve il peso forma e, in coppia con Alfredo Di Stefano, trascinò i madridisti alla vittoria di cinque titoli nazionali consecutivi e a tre Coppe dei Campioni, l’ultima delle quali alla soglia dei 40 anni.

Dopo che il generalissimo Francisco Franco gli ebbe conferito senza tante formalità la cittadinanza spagnola, giocò con le "Furie rosse" un’altra Coppa Rimet, quella del 1962, in Cile, dove però la straordinaria vena realizzativa lo abbandonò. La memoria di uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi resta dunque legata all’Aranycsapat, la “squadra d’oro” ungherese che inventò il football moderno e che perse una sola partita in sei anni. Purtroppo, era quella che contava di più.

Post scriptum - Esattamente venti anni dopo, nel 1974, l'erede dell'Ungheria di Puskas, vale a dire l'Olanda di Cruijff, si presentò in finale per raccogliere gli avversari con il cucchiaino e alzare al cielo la Coppa del mondo. Glielo impedì, di nuovo, la Germania Ovest, che per la seconda volta chiuse le porte della gloria in faccia ai predestinati. Mentre sono (solo) momentaneamente ospite della "locomotiva d'Europa", non mi sento di dire che furono mere coincidenze.

Paolo Bruschi